a cura di Angelo Falcone – Delegato alla Salute Movimento NOI/
C’è un’elite che in Italia costituisce un’eccezione pur dovendo sulla carta rappresentare la regola. Dopodiché, la qualità dell’assistenza sanitaria di base fornita dalle Regioni italiane è suddivisa in tre tronconi, separati da altrettante nette fratture. Sia in termini di prevenzione che di cura, chi abita nelle aree del Centro e del Nord della Penisola, può contare spesso su quelle tutele che il servizio sanitario nazionale dovrebbe garantire ovunque. Cosa che invece non accade ai 14 milioni di italiani che risiedono dall’Abruzzo alla Sicilia che, costantemente, vengono trattati come cittadini di seconda fascia. E, in molti casi, devono rinunciare a servizi e prestazioni di base. Inevitabile che, a fronte di un simile scenario, la mobilità sanitaria lungo la Penisola non accenni ad arrestarsi.
Il monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) fotografa un Paese che marcia, almeno, a tre velocità. Le prestazioni e i servizi di cui parliamo, sono quelli che il Servizio Sanitario Nazionale deve, o dovrebbe fornire a tutti i cittadini gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione, il tanto vituperato ticket. Questi servizi, garantiti dal gettito fiscale, dovrebbero essere il fulcro dell’assistenza sanitaria italiana. E la loro valutazione, in seguito all’introduzione del federalismo in sanità, è il principale indicatore dell’efficienza dei singoli servizi sanitari regionali.
Ma, spesso, questa valutazione si basa su rilevazioni affidate alle autocertificazioni regionali e con soglie invariate dal 2015. Per cui, basarsi sui Lea, non è più uno strumento adeguato per verificare la reale erogazione delle prestazioni sanitarie e la loro effettiva esigibilità da parte dei cittadini. Detto ciò, considerando l’assenza di strumenti più efficaci, ed utilizzando i dati disponibili, veniamo a sapere che il 26.3% delle risorse assegnate dallo Stato alle Regioni tra il 2010 e il 2018 non ha prodotto servizi per i cittadini. Di fatto, un quarto dei soldi che avrebbero dovuto essere spesi per aiutare cittadini in difficoltà, sono andati in fumo senza lasciare tracce.
Ci sono almeno due conseguenze che scaturiscono da un’erogazione ridotta dei Livelli Essenziali di Assistenza: l’aumento della mobilità sanitaria e l’impatto sulle prospettive di vita. Per far fronte alle inadempienze delle proprie Regioni, nel 2018 quasi un milione di italiani si sono allontanati da casa per sottoporsi a esami diagnostici, interventi chirurgici o altre terapie. I cittadini sono partiti dal Mezzogiorno per curarsi, in linea di massima, dalla Emilia – Romagna in su. Scegliendo di farlo o, peggio ancora, trovandosi obbligati, in assenza di soluzioni affidabili e tempestive a pochi chilometri dalla propria residenza. Ancora più rilevante è l’impatto che le disuguaglianze nell’offerta sanitaria generano in termini di prospettive di vita. Come dimostrano le statistiche dell’Istat, un cittadino calabrese corre il rischio di vivere mediamente 18 anni in meno in buona salute rispetto a un coetaneo altoatesino. Per spostarsi, d’altra parte, c’è bisogno di danaro. E chi non ne ha a sufficienza, finisce per evitare di curarsi: sorte che in ogni anno riguarderebbe all’incirca 4 milioni di italiani. A tutti gli effetti, Italiani di serie C.